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Geological Tours

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Nella bocca del Nyiragongo
 

autore:    Francesco Pandolfo [24-09-2012]

Da un mese all’altro, dopo aver inviato semplicemente qualche mail, ci ritroviamo in Repubblica Democratica del Congo (DRC), alle pendici del Nyiragongo, per avventurarci alla scoperta nel vulcano più attivo dell’Africa e del lago di lava più grande al mondo.
“Ma lo facciamo davvero?”, “Ormai siamo sull’aereo…”
Partiti con pochissimo preavviso, contro ogni consiglio, dopo innumerevoli vaccinazioni, visti, “serve un’assicurazione?”, “per il rischio lava, malattie tropicali, o guerriglieri nella giungla?”. Attraversiamo il confine tra Rwanda e DRC accompagnati da una macchina delle Nazioni Unite fino a Goma, dove ci sistemiamo in casa del nostro contatto locale, il Prof. Dario Tedesco. Il Nyiragongo ha già minacciato seriamente attività e abitanti della città di Goma per ben due volte negli ultimi 50 anni, nel 1977 e nel 2002, quando la lava uscì da una frattura apertasi sul bordo del vulcano per attraversare letteralmente la città fino ad andare a riversarsi nel lago Kivu.
“Mi ripeti poi perché siamo qui? Ah si, la telecamera”.
Scopo principe della missione, organizzata dall’UNOPS insieme alla Società Vulcanologica di Goma in collaborazione con la Società Vulcanologica di Ginevra, è l’installazione di una telecamera a ripresa continua sul versante interno del vulcano per il monitoraggio del lago di lava. Un giorno intero per conoscersi prima di salire: siamo in 10, un gruppo tutto europeo, tra italiani, francesi e svizzeri. Si prepara il materiale, si controllano corde, sacchi, provviste, acqua, pannelli solari, batterie, cavi.

La salita al vulcano inizia come una lunga carovana colorata di portatori che cantano salendo instancabili all’ombra della foresta pluviale. Si è sempre scortati da guardie armate che dettano il ritmo e le pause dell’ascesa. Il parco naturale di Virunga è famoso per ospitare specie animali in via d’estinzione quali i gorilla di montagna, ma è tristemente ancor più famoso per essere stato territorio di battaglia durante la guerra civile in Congo e per ospitare ancora oggi bande armate di ribelli e bracconieri che attaccano i turisti. Usciti dalla foresta, il sentiero risale le colate del 2002, facendosi via via meno agevole. Si cammina su blocchi arrotondati sgretolati dalla roccia, scivolando troppo spesso. Incontriamo le bocche eruttive da cui la lava fuoriuscì, profondi crepacci folti di felci e muschio che ancora fumano pigramente dell’innocuo vapore acqueo: già da qui se ne ha un’idea ma visti dall’alto appariranno come un’impressionante ferita nel fianco della montagna. Si sale lungo colate di diverse età, rocce giovanissime, già completamente colonizzate da arbusti.
“Ma a che quota siamo?”, “3200”, “Alberi, orchidee… ti sembrano normali a queste quote?”
Poi ti giri, e alle spalle le pianure del rift centroafricano si estendono verdi e perfettamente piatte lungo il confine tra Rwanda e DRC fino al lago Kivu, proseguendo a perdita d’occhio. La salita s’inerpica sempre più ripida lungo il cono sommitale e solo una volta raggiuntone il rim, a 3470 metri di quota, si apre lo spettacolo sul lago di lava al suo interno.
“Fa paura...”, “È lì dentro che vogliamo calarci noi…?”,“Si, ma… come?”
La discesa all’interno del vulcano si mostra subito per ciò che è: 380 metri di dislivello che ci distanziano dal lago, con due grandi terrazzamenti a garantire una sicura sosta in parete.
Con sorpresa la nostra sistemazione in cima al vulcano è agevolata dalla presenza di piccole capanne biposto di latta già arrugginita dalla corrosione dei gas vulcanici, bivacchi montati l’anno prima dalle guardie del parco. Una volta montata la tenda cucina e tenda mensa non ci si ferma a riposare e subito iniziano le perlustrazioni in parete, alla ricerca della migliore via di discesa e di un punto sicuro e comodo per installare la telecamera. Ma all’equatore il sole tramonta velocemente, il buio arriva in fretta e presto ci troviamo tutti intorno a un sano piatto di riso, cavoli e patate. Thomas, il nostro cuoco al campo base non varierà molto la nostra dieta nei giorni successivi: cavoli-riso-patate, patate-riso-cavoli, riso-patate-cavoli… e tutte le altre possibili combinazioni!

La mattina seguente le cose si fanno serie e subito mi trovo in parete con uno zaino pieno di tondini di acciaio che fungeranno da chiodi, una mazza da 3 kg e metri su metri di corda. ‘Ferramenta’ è chiamata in alpinismo, qui il sinonimo migliore per gli attrezzi del mestiere è ‘set per cantieri edili’! Sulle corde scendiamo Marc ed io. Alpinista svizzero molto esperto, Marc conosce già queste pareti. Unica pecca, non parla una sola parola di una lingua che non sia il francese. Ed io e il francese non siamo in buoni rapporti. Sappiamo entrambi come ci si muove in parete e per fortuna ognuno riesce a fare bene il suo lavoro riducendo al minimo la comunicazione verbale. In mezza giornata le corde fisse per la discesa alla prima terrazza e la teleferica per il trasporto del materiale per la telecamera sono installate. Ora i compiti si dividono, c’è chi lavora all’installazione della camera e chi effettua il “servizio navetta” per portare a spalla il materiale fino alla prima terrazza.
La discesa alla prima terrazza è un lungo percorso di 190 metri di dislivello su terreno decisamente non ideale. Non importa quanto disgaggio e pulizia potessero fare i primi a scendere (e ne è stato fatto parecchio), la roccia è completamente alterata e ad ogni passo ti si sgretola sotto i piedi, per quanta attenzione si possa mettere nell’appoggiarli. Attraverso corde fisse, calate verticali, traversi e scalette (lì presenti dalle prime discese degli anni 70…) alle quali affidi poca fiducia, si arriva a destinazione. Il pericolo più grande è il lasciarsi prendere dalla monotonia del costante salire e scendere, ogni passo può presentare un pericolo, in ogni salita o ogni discesa… Ancor più perché lo zaino è carico di 20-25 kg di materiale.
“Ma quanta acqua beviamo?”, “Francesco, puoi per favore fare un altro giro?”.
Nel pomeriggio del terzo giorno ci troviamo tutti sulla prima terrazza, la telecamera installata correttamente, tutto il materiale pronto per essere calato sulla seconda terrazza. Un’unica discesa di 90 metri, verticale e parzialmente sospesi nel vuoto. Le difficoltà tecniche sono finite per il momento, rimane solo la lunga fatica di caricare e scaricare tutto il materiale per il campo sulla teleferica.

Il buio scende in fretta, e la presenza del vulcano si fa sempre più viva. Ormai siamo dentro. Le pareti si tingono di rosso, il rumore della roccia che ribolle continua a rimbombare nelle orecchie come un mare in tempesta, il colore della lava si accende come a volerti ricordare che non c’è pausa, non c’è riposo, è sempre lì, sempre attivo, e nessuno mai può anche lontanamente pensare di fermarlo, è il suo territorio e bisogna portargli rispetto. Hai la consapevolezza che essere appeso a una corda, in quel momento, è il pericolo minore. Guardi quei dieci millimetri di fibre sintetiche tessute insieme, saluti chi deve ancora scendere dopo di te e lasci scorrere la corda dentro il discensore fino a quando i piedi non toccano di nuovo la terra, sulla seconda terrazza del cratere del Nyiragongo. E’ un sogno che si avvera, una sensazione che pochissime persone al mondo hanno provato, ti senti chiuso dentro il cratere del vulcano africano più attivo e pericoloso e soli altri 100 metri di dislivello separano te dal lago di lava più grande del mondo.
Lontano dal bordo della terrazza la luce e il rumore si attenuano e complici la stanchezza e il bisogno di esorcizzare le paure che inevitabilmente ti attanagliano, da buon ʻgruppo italiani’ ci ritroviamo dentro la tenda più grande per riscaldare lo stomaco.
“Hai sentito che tuono?”, “Non era un tuono, veniva dal basso…”
Ci guardiamo in faccia, uno dopo l’altro, per quei secondi sufficienti a farti capire che non vuoi realizzare che il boato sentito veniva da sotto di noi, e in un attimo siamo subito tutti fuori dalle tende sul bordo della terrazza a osservare il lago. “È sceso di 40 metri”. Il calcolo è presto fatto, approssimativo, certo, ma ~300 metri di diametro di lago, 40 metri di vuoto… “dove sono andati a finire due milioni di metri cubi di lava???”. Il satellitare non prende, è notte ormai, non si può fare altro che tornare in tenda, con un’unica consapevolezza: “se succede ancora domani torniamo subito su”. Durante la mattinata successiva riusciamo a contattare l’osservatorio vulcanologico a Goma e tiriamo un sospiro di sollievo sapendo che nessuna eruzione è in corso. È nato un dicco, forse… è come se la terra avesse starnutito… Seppur dentro il cratere stesso, incredibilmente saremmo stati gli ultimi a sapere che il Nyiragongo è in eruzione...

La seconda terrazza, illuminata dal sole, si presenta come un territorio marziano. Tappezzata di cenere vulcanica, sembra una spiaggia di chicchi di riso rossastri. L’intera terrazza, nonostante le sue dimensioni, tende a crollare verso l’interno creando lunghe file di crepaci concentrici. È di una bellezza aspra, severa, che lascia senza fiato. Sei schiacciato sotto le pareti del cratere, l’orizzonte ridotto a un cerchio di cielo, anche se lo sguardo è quasi sempre rivolto verso il basso, ad osservare il protagonista incontrastato: il lago di lava. La sua attività è aumentata notevolmente dopo l’abbassamento di livello e la superficie è rotta e increspata da fontane di magma in innumerevoli punti. Enormi bolle di gas regalano spettacoli pirotecnici di unica bellezza e sulle pareti interne si infrangono vere e proprie onde di roccia fusa. Con il ritorno del buio lo spettacolo ti incanta, è come guardare direttamente l’interno della Terra.

Manca solo uno step, un ultimo grandino, la terza terrazza. La discesa più tecnica di tutte, quella più difficile, quella ʻnon per tutti’. Una lunga discesa verticale, 100 metri interamente da proteggere, con lame di roccia che tagliano la corda ed enormi blocchi instabili. Sulla terza terrazza si è definitivamente in un altro mondo. Il lago è lì, poche decine di metri davanti a te. L’argine, più alto di te, non ti permette di vedere al suo interno. Il silenzio è surreale, solo un’enorme colonna di gas ti ricorda la presenza di qualcosa che è ‘vivo’. Cammini su lave così ricche di bolle di gas e talmente vetrose che si sbriciolano sotto il peso dei tuoi passi, sembrano spumiglie, lasci l’impronta sulla roccia, come a disturbare ciò che si è riversato e solidificato lì per dare il suo contributo alla crescita del vulcano, all’evoluzione dell’intera Africa. Ci avviciniamo al bordo del cratere e insieme diamo la prima occhiata al lago di lava da più vicino che mai.
“Ho freddo”
Ed era vero… ma non faceva freddo… il caschetto comincia a scaldarsi all’istante, la pelle a contatto con l’aria diventa subito bollente, i gas caldi obbligano all’uso della maschera antigas. Pochi secondi, solo pochi secondi di permesso si hanno per stare al suo cospetto. Poi il caldo si fa insopportabile e capisci che il tempo è scaduto. Bastano però quei pochi secondi per imprimere in mente un ricordo indelebile, il ricordo di un caldo dantesco, infernale, non paragonabile a ogni altra fonte di calore di cui si ha memoria… La visione di quella luce, un arancione acceso e abbagliante in ogni sua forma, il ricordo di un rumore, di un mare in tempesta, un oceano di roccia liquida in continuo movimento.

Nei quattro giorni di permanenza sulla seconda terrazza tutti gli obiettivi preposti sono stati raggiunti. Quasi tutti abbiamo passeggiato sulla terza terrazza guardando in faccia il lago, accelerometri sono stati installati per osservare le minime variazioni di forma della base del cratere, gas dalle fumarole e dal plume principale sono stati raccolti per essere analizzati. Il Nyiragongo è attivo e quanto mai imprevedibile, e l’esperienza da noi provata la prima notte sulla seconda terrazza ne è l’ennesima prova. La domanda non è “se”, la domanda è “quando” erutterà di nuovo.
Attualmente gruppi di ribelli dell’M23 in rivolta contro le forze governative del paese hanno conquistato varie porzioni del parco e lo stanno amministrando. Il clima è molto caldo e razzie, depredamenti, stupri collettivi e esecuzioni da parte di ambedue le forze armate sono all’ordine del giorno. Ultimi aggiornamenti da Goma parlano di una remota ma non così lontana possibilità di evacuazione della città per i dipendenti UNOPS. Il Nyiragongo passa purtroppo in ultimo piano e le possibilità di lavorarci e monitorarlo si riducono a zero. Si può solo aspettare che la situazione “politica” di calmi e che il vulcano stesso non si “scaldi” a nostra insaputa.

Francesco Pandolfo & Sara Callegaro